The Fabelmans è la meravigliosa confessione di Steven Spielberg (2024)

The Fabelmans probabilmente costringerà l’Academy a correggere il tiro rispetto alla pessima edizione dell’anno scorso, quando Steven Spielberg con il suo magnifico West Side Story, fu ingiustamente criticato e dovette anche confrontarsi con una brutta performance in sala.
Il maestro per eccellenza della “Fabbrica dei Sogni” arriverà a dicembre nelle nostre sale con questo film, con cui ci parla senza alcuna paura di se stesso, di come la settima arte lo catturò, del perché diventò l’unica cosa che per lui contasse al mondo, della sua gioventù fatta di emarginazione e sogni. Un film intimo e personale, eppure universale nel messaggio, potente, pieno di sentimento ma senza essere retorico o eccessivamente melodrammatico, quanto una sintesi semantica e stilistica del suo cinema, del perché per noi Steven è uno di famiglia.

Un ragazzino dell'Arizona con un sogno nel cuore


The Fabelmans segue dall’infanzia fino ai diciott’anni Sammy Fabelman (Mateo Zoryon Francis-DeFord da bambino, Gabriel LaBelle da adolescente), figlio di Burt Fabelman (Paul Dano) e Mitzi Fabelman (Michelle Williams) che vive assieme alle sorelle e alle nonne nell’Arizona del dopoguerra. Burt è un ingegnere della neonata elettronica di quegli anni, un uomo sensibile, intelligente e gentile, per quanto talvolta egoista e un po' timido. Mitzi invece è una donna dallo spiccato talento artistico che però non ha mai potuto sviluppare appieno, spesso preda di una grande malinconia. A completare uno strano terzetto c'è Bennie Loewy (Seth Rogen) collega di Burt, che con il tempo diventa una sorta di zio acquisito per Sammy, perso in un mondo tutto suo e con la passione per il cinema, dove dimostra da subito un incredibile talento e passione.

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Nel corso degli anni, Sammy dovrà fare i conti con i frequenti spostamenti a causa del lavoro del padre, un senso di isolamento e inadeguatezza crescente, il bullismo a causa delle sue origini ebraiche e il complicarsi del matrimonio dei genitori, che lo colpirà violentemente.
Steven Spielberg come sempre nella sua cinematografia fin dai tempi di Duel e lo Squalo, unisce verità con fantasia, ci prende per mano, ci porta dentro quella che è una semi-autobiografia dedicata ai genitori, a quegli anni che bene o male sono sempre tornati dento il suo cinema sia in modo diretto che indiretto, creando qui forse la sua opera più personale e coraggiosa per certi aspetti. Il tutto senza però commettere mai l'errore di rimanere schiavo della sua creatura, di smettere di essere al servizio della narrazione come condivisione di emozioni.


Scritta dallo stesso Spielberg assieme a Tony Kushner, The Fabelmans è una commedia familiare ed anche un racconto di formazione di squisita coerenza e fattura, con una capacità sorprendente di parlarci di dubbi, paure, mutamenti, dell’adolescenza in particolare unendo ironia con sensibilità. Il risultato finale è un film hollywoodiano ma nel senso più alto, più classicamente amato e assieme più universalmente noto, che riesce a rendere palpabile l’importanza dei sogni e della necessità di inseguirli a qualsiasi costo. Ma è su come trasformare quei sogni in una ragione di vita, come difenderli e come declinarli, che The Fabelmans riesce a differenziarsi per originalità di sguardo e contenuto.

Un film che si muove tra classicità e innovazione

The Fabelmans fin dall’inizio ha il grande pregio di rendere non la storia in sé, ma i personaggi che la abitano i veri pilastri di una narrazione familiare colma di un’ironia mai eccessiva, quanto ammantata dal ricordo del narratore. Il che contribuisce a rendere universale e ancora più potente il film, perché bene o male tutti possiamo rivederci nelle avventure di Sammy, nel modo in cui ci fa comprendere l’importanza di certe serate familiari, dei regali, delle piccole avventure e soprattutto della scoperta. La scoperta è il grande tema sotterraneo del film, sia per quello che riguarda il cinema, le sue leggi scritte e non scritte, sia soprattutto la vita del protagonista, a cui il giovane Gabriel LaBelle dona un grande verosimiglianza, grazie ad un'interpretazione magistrale. Il suo Sammy è un uno dei ragazzi più normali, veri, autentici e scevri dai cliché narrativi sull’adolescenza che il cinema e anche la televisione ci abbiano donato ultimamente.

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Il che è quasi un paradosso calcolando che per diversi aspetti The Fabelmans segue i classici topoi del sovente abusato universo dei teen movies: due nonne un po’ strane, delle sorelle invadenti, un rapporto complicato coi genitori e poi la scuola piena di bulli, aspiranti Miss America e delusioni d’amore.Eppure, tanta è l’abilità del regista americano, che tutti questi elementi ci appaiono come nuovi, o meglio ancora come portatori di una nuova identità, una nuova finalità: parlarci di uno dei più grandi registi di tutti i tempi e di come è cominciata la sua storia, del perché tutti entrando in una sala cinematografica cerchiamo una condivisione di sentimenti e istanti in grado di elevare la nostra esistenza.

The Fabelmans ci dà tutto questo con una partenza in sordina, descrittiva, per poi mettere l’acceleratore non tanto a livello di ritmo, ma nella sua incredibile capacità di mostrarci i sentimenti dei protagonisti. Ci parla della vita che a mano a mano che Sammy cresce diventa più complicata, ma anche più sorprendente, mentre è costretto a guardare in faccia la prepotenza dei coetanei e ad accettare ciò che non si può cambiare, ciò che è al di fuori del nostro controllo. L’arte? L’arte è la vita che diventa creta nelle nostre mani, è non solo il modo in cui noi vediamo il mondo ma anche come lo possiamo piegare ai nostri sogni, alla nostra fantasia che è una possibilità di fuga e di salvezza.

Una confessione intima sul rapporto tra arte e vita

Spielberg con The Fabelmans riabbraccia la tematica dell’adolescenza come fuga solitaria verso l’orizzonte, di parla dell’amicizia, dell’abbandono, della felicità che spesso per essere agguantata va alimentata con la sofferenza altrui come succede ai suoi genitori. L’amore è importante, pare dirci Spielberg, ma spesso non basta, non quando si capisce che è la libertà il bene più prezioso.Cast magnificamente assortito e diretto questo in The Fabelmans, su cui spiccano in modo meraviglioso Paul Dano e Michelle Williams. Il primo in particolare, riesce a delineare una figura paterna incredibilmente potente, un uomo apparentemente comune nell’aspetto ma atipico per personalità, per sensibilità, soprattutto per la sua doppiezza, che poi contraddistingue quel matrimonio che Spielberg viviseziona di fronte ai propri e altrui occhi.

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Il padre che pensa al lavoro, che fa finta di essere legato a Bennie, il migliore amico della moglie, di base una sorta di terzo incomodo, illusione platonica di una vita diversa per lei, la Mitzi di una Michelle Williams vulnerabilissima, donna dallo spirito disperatamente libero. In questa madre che a poco a poco non riesce più ad essere moglie, Spielberg inserisce il tema di una libertà che più che femminile, è universale, trascende i confini di questa famiglia sempre in bilico.
Spielberg di sottecchi, abbatte i pilastri immutabili della società americana che egli stesso ha celebrato, per dirci che anche la peggior tristezza e dolore un giorno ci potrà essere utile, che in fondo l'artista spesso è colui il quale non trova altro modo per essere se stesso che chiuderlo in una pellicola o dentro ad un quadro.


The Fabelmans ci parla quindi in ultima analisi dell’arte, un'arma a doppio taglio per chi la rende la propria ragione di vita, del prezzo in fatto di vita sociale e sentimentale che l’artista rischia di pagare, vuoi per l’essersi votato in modo totalizzante al proprio talento, vuoi anche per i limiti che l’essere umano ha e che Spielberg ci mostra. Vi è un po’ di Fellini e di Allen, un po’ di Lucas e dei maestri immortali della Nouvelle Vague francese, in questa sua autobiografia ma poi in realtà no: c’è soprattutto Spielberg che dipinge a mano libera. L'insieme abbraccia ma senza fanatismo il sogno americano, prende per mano il pubblico e lo guida dentro la sua anima, quegli anni in cui trovò dentro a piccole cineprese il modo di fuggire da tutto e tutti, di accettarsi per ciò che era.\

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